Dis-locazioni
Un insediamento specifico di lavoratori immigrati in Basilicata si trova nelle vicinanze di Palazzo San Gervasio. Per dieci anni, questo magazzino abbandonato ha prestato servizio come campo di lavoro per migranti. Con una forma di gestione autonoma e condivisa, lavoratori sudanesi e burkinabei vivevano lì fianco a fianco, organizzando ripari, cibo, acqua e mezzi di trasporto nei diversi siti di lavoro.
Ma nel 2009 le cose sono diventate difficili. Nella completa assenza di sostegno da parte delle autorità pubbliche, fra i lavoratori la competizione per i servizi si è rapidamente trasformata in uno scontro aperto, che ha raggiunto il suo apice il giorno in cui alcuni gruppi di lavoratori hanno iniziato a rivendicare un “prezzo” per scaldare l'acqua che veniva recuperata dalla fonte comune. L'anno successivo, il consiglio comunale ha improvvisamente deciso di bloccare l'accesso al sito, ufficialmente per motivi di pubblica sicurezza, costringendo i lavoratori a trovare sistemazioni alternative.
Dopo che il sito è stato bloccato, un gruppo di lavoratori ha comunque cercato di passare attraverso il recinto, occupando illegalmente l'edificio. Due di loro si ricordano:
I: Siamo entrati perché non avevamo nessun altro posto dove andare. Da quando ho cominciato a vivere a Palazzo, il problema è che non volevamo andare al ghetto. Ma i proprietari locali non volevano darci una casa.
P: Non volevano gli estranei ... Non volevano i neri ...
I: Abbiamo offerto più volte di affittare case, ma loro hanno detto di no ... che non potevamo pagare la casa.
P: Beh, in effetti le persone si parlano. Ma quando vai a chiedere case, non c'è casa. Non ci è stato detto direttamente ... ma abbiamo sentito ... perché hanno detto che non siamo in grado di pagare ... Allo stesso tempo vediamo i rumeni, gli albanesi [affittare le case], si, ma a noi noi...
I: Non avevamo scelta, dovevamo vivere nelle case abbandonate. Era quello o niente.
Alla fine del 2010, una forza di sicurezza congiunta scese nel centro di accoglienza, sfrattando con la forza i 30 abitanti che stavano occupando il sito. Mentre la maggior parte di loro fu immediatamente rilasciata, decisero di disperdersi nelle fattorie abbandonate sul confine tra Puglia e Basilicata.
Un gruppo di lavoratori trova rifugio in una grotta nei pressi di Palazzo San Gervasio. Lo chiamano Grotta Paradiso, dopo una breve visita del vescovo di Venosa, che denuncia le terribili condizioni di vita del sito.
Buttando i materassi sul pavimento, gli operai immigrati si coprono con le scatole di polistirolo usate per il trasporto delle piante di pomodoro.
Il posto è lurido, ingombro di rifiuti. Non ci sono servizi igienici, nè docce, nè coperte nè fornelli di cottura. Per trovare l'acqua, gli operai scendono verso una fontana vicina, che viene immediatamente bloccata dal proprietario. Con l'avvicinarsi dell'inverno, alcuni lavoratori vanno in città per chiedere ancora una volta accesso all'alloggio; di nuovo, il loro grido di aiuto cade nel vuoto.
Grazie all'aiuto di una piccola minoranza di volontari, vengono salvati da questo inferno all'ultimo minuto.
Con i primi fiocchi di neve che cadono, l'ultimo abitante di Grotta Paradiso trova finalmente un passaggio in città, dove diventerà il primo residente permanente africano.
La politica del respingimento dei migranti in Basilicata e in Puglia ha creato un mercato fortemente diviso per la manodopera agricola manuale che si adopera a favore dei padroni del lavoro e a scapito dei lavoratori residenti africani. Durante i primi giorni della "crisi migratoria" mediterranea, la dispersione attiva dei lavoratori migranti sul territorio italiano ha consolidato una rete di enclave etniche. Ogni anno, gli operai Ghanesi, Maliani, Sudanesi e Burkinabe ritornano ai loro insediamenti abitativi situati lungo il confine tra Basilicata e Puglia. Da questi insediamenti, la gerarchia dei caporali continua a funzionare come l'organizzazione centrale di un sistema capillare che media attivamente lavoro, produzione e capitale in questa industria agricola in costante espansione.
Sebbene gruppi di lavoratori acquisiscano la relativa autonomia per organizzarsi all'interno di un singolare spazio sociale, la logistica della mediazione del lavoro si cristallizza attorno all'infrastruttura del "ghetto" migrante. Qui, l'interazione economica e sociale si sviluppa attorno a una rete distributiva fortemente organizzata e dominata dall'Italia, che si adopera in stretta collaborazione con i datori di lavoro locali e con una cerchia ristretta di autorità pubbliche, in modo strettamente informale.
Gli unici due centri di accoglienza ufficiali in questa zona svolgono il compito unico di legittimare la segregazione dei flussi migratori attraverso mezzi logistici. Né le misure legislative nazionali né l'espulsione deliberata degli habitat dei migranti hanno avuto l'effetto di distruggere la gerarchia dei caporali. Al contrario, i lavoratori migranti continuano a vivere le loro vite isolate: in campi di fortuna, ghetti e rovine abbandonate, che contengono le tracce del loro insediamento permanente.